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lunedì 21 gennaio 2013

Django Unchained (2012) by Quentin Tarantino


Django Unchained (2012)
by Quentin Tarantino

Jamie Foxx (Django)
Christopher Waltz (Dr. King Schultz)
Leonardo DiCaprio (Calvin Candie)
Kerry Washington (Broomhilda)
Samuel L. Jackson (Stephen)
Walton Goggins (Billy Crash)
Dennis Cristopher (Leonide Moguy)
David Steen (Mr. Stonesipher)


Eravamo rimasti al successo molto inglorioso di Inglorious Bastards: un'operazione in cui Tarantino aveva raccontato la Seconda Guerra Mondiale coi suoi toni, peraltro maggiormente edulcorati rispetto al solito per non infastidire il grande pubblico, arrivando persino a rinventare l'omicidio di Hitler, di fatto squalificando la cultura pop a mero pastiche cinematografico.

Stavolta invece il buon Quentin torna sulla via retta della coerenza e della cosiddetta etica estetica: sfoga le sue ossessioni di feticci, sparatorie, personaggi e situazioni da serie B desaturata anni '70 nella storia della schiavitù afro: ovvero ciò che proprio partorisce la cultura che il regista da due decenni usa, rinterpreta e ostenta.

Lo schiavo Django viene liberato da un cacciatore di taglie tedesco e insieme viaggiano per il Texas alla ricerca di banditi da consegnare alla legge e di sua moglie, tenuta schiava nella piantagione di un appassionato di lotte di Mandingo. Nel mezzo ci sono sparatorie, torture, razzismi, oggettistica ottocentesca (tra cui una fornace): in poche parole il vero "pulp".

Tutto per raccontare un periodo nero come il colore degli schiavi della storia Americana, che nella sua pur iperrealistica forma risplende come un appassionante fumetto, che grazie ai dettagli ben evidenziati possiede la flessibilità giusta da portare sul grande schermo l'immaginario ottocentesco antecedente alla guerra civile con ironia beffarda a ridicolizzarne i contenuti. Come i membri di un improvvisato Klu Klux Klan che si lamentano dei buchi del cappuccio o come le tre fossette del cranio di un nero morto che un perfido e convincente DiCaprio usa per giustificare la sottomissione razziale.

La lingua e la cultura germanica (anche i Nibelunghi), simbolo del progressismo, ci salverà proiettandoci in un futuro di democrazia. Un gran spettacolo, finalmente.


VP