Per chi ama la letteratura, scrivere racconti, essere cittadini del mondo e riflettere sulla Settima Arte

lunedì 11 febbraio 2013

Re Della Terra Selvaggia (2012) by Benh Zeitlin


Beast Of the Southern Wild (2012)

Ouvenzhané Wallis (Hushpuppy)
Dwight Henry (Wink)
Levy Easterly (Jean Battiste)
Lowell Landes (Walrus)
Pamela Harper (Little Jo)
Gina Montana (Miss Bathsheba)
Johnshel Alexander (Joy Strong)
Joseph Brown (Winston)


Grazie a Dio i miracoli nel cinema ancora esistono. E un piccolissimo film, orgoglioso e potente, riesce ad arrivare agli Academy Awards con ben quattro nomination, scrive già una pagina importante della storia della Settima Arte e commuove il Presidente Obama.

Lo fa abbassando i suoi 16 millimetri di ripresa ad altezza bambino e pedinando costantemente la piccola Hushpuppy nella sua storia di quotidiana sopravvivenza nella "grande vasca" di una palude del sud degli Stati Uniti, abbandonata dalla civiltà dell'abbondanza e degradata a bidonville naturalistica, insieme a quei giganti di adulti che, forse per scelta, forse per necessità, hanno deciso per sé e per i bambini della comunità di fare a meno del mondo industriale e delle comodità della civiltà borghese.

Una storia di povertà e ingiustizia sociale (e di paternità e maternità, di presenze e assenze) riletta dalla voce off della bambina, con lo sguardo partecipe della regia, come una favola tribale che rinventa scenografie fantasy con carcasse e bidoni e innalza ad (anti)eroi degli ubriaconi reietti della società. Perché la "grande vasca" è in Louisiana (anche se la regia non ce lo dice mai) e l'uragano Katrina la devasterà portandone la comunità (una specie di Amish laici) a lottare per la sopravvivenza anche contro quegli aiuti umanitari che vorrebbero riportarla al di là della diga.

Il giovane Zeitlin (appena trentenne) raggiunge la grandezza lavorando dal basso: non si vergogna affatto dei limiti tecnici, della fotografia sgranata, dei movimenti traballanti della macchina a mano da far impallidire Lars Von Trier e tutto Dogma 95. E riporta il cinema a una dimensione carnale e di puro storytelling parabolico che buca lo schermo e irride l'estetica dominante di quest'era di perfezionismo digitale e di immagine pulita.

Il risultato è straordinario: quanto di più vicino al documentarismo epico di Robert Flaherty (Nanook Of the North, Man Of Aran), vette mai raggiunte da ben più illustri predecessori. Grande cinema, fresco, appassionante, vivace, alimentato da una dignità ostentata, quasi sfacciata. Forse pure troppo: il regista talvolta si fa prendere la mano e condisce il film con effettacci e simbologie un po' telefonate (tutte le scene allegoriche con la corsa dei mammut), ma sono piccole sbavature di qualcosa che scuoterà l'intero mondo dell'audiovisivo, da quello più industriale e quello più legato alla videoarte.

Forse si apre un nuovo capitolo... che ci restituisce (probabilmente anche grazie alle poche risorse della crisi mondiale) un modo primordiale e dimenticato di raccontare storie.




La distribuzione nel nostro paese di questo gioiello è stata curata dalla Satine Film, di cui il mio docente (nonché amico e confidente) Alessandro Di Nuzzo (editor Aliberti) è socio. Questa recensione entusiasta è dedicata a lui e al suo gruppo di lavoro, che ben prima delle nomination agli Oscar e dei tanti riflettori puntati aveva scommesso sul film.


VP