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mercoledì 27 marzo 2013

Chinatown / Il Grande Inganno

La settimana scorsa avevo una gran voglia di noir, di quelle storie che odorano di tabacco e cuoio consumato che ho tanto amato negli anni in cui studiavo la Storia del Cinema e che poi ritrovavo nelle pagine di Chandler e Simenon. Ma più in particolare desideravo riassaporare quelle atmosfere senza trovarmi davanti un Marlowe o un Maigret, ma qualche loro parente meno famoso. Allora ho rispolverato un vecchio grande film degli anni '70 della New Hollywood (e mai ossimoro è stato così godibile), che non solo affascina per lo svolgimento del suo intreccio e per i dettagli che fanno la differenza, ma si presta grandiosamente a una riflessione sul ruolo del regista e dell'attore nella Settima Arte.

E nell'epoca dell'Oscar vinto da Ben Affleck e dei tanti attori che si mettono dietro la macchina cinematografica con esiti altalenanti, che vanno dalla fantastiche filmografie di Eastwood e Allen a un pietoso Parlami D'Amore (Muccino piccolino), passando per uno Staying Alive (Stallone) o un Good Night and Good Luck (Clooney), il tema del rapporto tra autore e interprete è decisivo come non mai per capire l'estetica di una materia.

Il dittico Chinatown / Il Grande Inganno rappresenta esattamente questo. Una sarabanda di scene e particolari classici del noir, e quindi classici del Cinema, con in più una carrellata di volti e comparse che ci parlano dell'ambizione di essere artisti a tutto tondo in una disciplina che soprattutto a Hollywood vuol dire industria e sinergia di più ruoli. Così troviamo in cabina di regia il polacco Roman Polanski reduce dal dramma dell'omicidio di sua moglie Sharon Tate e protagonista di un letteralmente accattivante cameo nel corso del film; una strepitosa dark lady con la personalità di Faye Dunaway; un personaggio fascinoso quanto malefico col volto rugoso del regista John Huston (che annovera nel suo portfolio il capolavoro Fat City) e un Jack Nicholson in stato di grazia nei panni dell'investigatore privato Jake Gittes e molto meno straordinario nel ruolo di regista del seguito, a 16 anni dall'originale, accompagnato da un Harvey Keitel sulla cresta dell'onda.

Dunque...


Chinatown (1974) by Roman Polanski


Chinatown (1974)
di Roman Polanski

Jack Nicholson (J.J. Gittes)
Faye Dunaway (Evelyn Mulwray)
John Huston (Noah Cross)
Perry Lopez (Escobar)
John Hillerman (Yelburton)
Darrell Zwerling (Hollis Mulwray)
Diane Ladd (Ida Sessions)
Roy Jenson (Mulvihill)


Il sole della California filtra dalle veneziane dello studio in cui Jake Gittes mostra ai suoi clienti le fotografie che documentano adulteri, tradimenti e spionaggi e smascherano l'alone di perbenismo decadente dell'America post proibizionista. Intanto però Los Angeles è scossa da uno scandalo di proporzioni bibliche e che riguarda il suo impianto idrico: la città è stata costruita su un'area semidesertica e garantire lo smistamento dell'acqua sufficiente a soddisfare le esigenze di tutti gli abitanti è impossibile. Si dibatte sui progetti di dighe scartati a priori da Hollis Mulwray, ovvero da chi il suolo lo conosce come le sue mani; da chi non può non finire ammazzato per conto di chi vive invece di speculazioni, di chi ha tutto l'interesse affinché il corso dell'acqua proveniente dall'Oceano Pacifico venga deviato verso l'esterno della città, di chi avendo già tutto dalla vita (soldi, potere, donne, anche quelle che non gli spetterebbero per natura) vorrebbe impossessarsi anche dell'unica cosa ancora da conquistare: il futuro. Così Jake si troverà con la moglie di Hollis Mulwray, già vittima del tradimento di quest'ultimo con una giovane e misteriosa bionda prima di morire, ad affrontare una storia di criminalità e incesto che finirà in tragedia per le strade del quartiere cinese di L.A.

Un Polanski ancora sconvolto dalla morte della moglie Sharon Tate (per mano del satanista Richard Manson) e reduce dall'exploit di Rosemary's Baby si lascia guidare dall'ottima sceneggiatura originale (premio Oscar) di Robert Towne muovendo con agio la sua macchina da presa tra interni eleganti, aranceti, e corsi d'acqua, catturando tutti le sfumature di un noir californiano a tinte forti. Controlla con estremo senso dell'azione e della potenza seduttiva del genere un intreccio sofisticato e sviluppato con cura e si affida all'estro degli attori per condire il film di un lato torbido e ambiguo che nei rapporti tra Nicholson, Dunaway e Huston racchiude la chiave intima del film.



Il Grande Inganno (1990) by Jack Nicholson


The Two Jakes (1990)
di Jack Nicholson

Jack Nicholson (J.J. Gittes)
Harvey Keitel (Julius 'Jake' Berman)
Meg Tilly (Kitty Berman)
Madeleine Stowe (Lillian Bodine)
Eli Wallach (Cotton Weinberger)
Rubén Blades (Michael 'Mickey Nice' Weisskopf)
Frederic Forrest (Chuck Newty)
Perry Lopez (Escobar)


I due Jakes del titolo originale sono l'investigatore privato Jake Gittes, invecchiato e reduce dalla guerra, e l'immobiliarista Jake Berman (Harvey Keitel), fulgido esempio dell'America che parte dal basso e ce la fa grazie allo spirito d'iniziativa e alla passione. E anche grazie a qualche stratagemma: quello che i due Jakes si inventano per far fuori un personaggio scomodo. Intanto fuori dagli interni eleganti il sole della California e i colori degli aranceti sono assolutamente gli stessi di 16 anni prima. C'è qualche terremoto di troppo che fa tremare il suolo di una Los Angeles del '48 che ha conosciuto lo sviluppo edilizio selvaggio rilanciandosi sempre più come terra di opportunità... opportunità anche di trivellare ed estrarre il petrolio con tutte le conseguenze che ne derivano, sia in termini d'interessi, sia in termini di salute.

Nicholson si sdoppia davanti e dietro la macchina da presa e guidato sempre da una sceneggiatura di Robert Towne (assai meno brillante e flessibile agli spunti di regia rispetto a quella per cui vinse l'Oscar) riprende il ruolo di Jake Gittes per parlare ancora una volta di un sogno americano che ha scheletri nell'armadio a iosa. Il risultato è decisamente mediocre, sia in termini di spettacolo che di forma: l'intreccio è difficile da seguire e le scene si susseguono in modo assai poco coinvolgente e oliato. Così il film diventa lungo e inconcludente, cerca di muoversi nel suo ambiente naturale (il noir) aiutandosi con una voce off del protagonista inutilmente didascalica per poi scivolare molto banalmente nel drammatico.

Il noir è un genere che ha bisogno di un ferreo controllo nel suo svolgimento e nella cura dei suoi dettagli... e di un regista, quello che il grande Jack non è.


VP