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mercoledì 15 maggio 2013

Il Cineocchio / L'Uomo Con la Macchina Da Presa

Qualche giorno fa mi interrogavo ancora più del solito sul perché in mancanza di lavoro nell'ambito audiovisivo in Italia mi ostini a passare ore, giorni interi, a guardare, criticare, pensare il Cinema. Ovviamente ogni volta la risposta si trova dentro sé stessi, dentro quella luce che si accese il giorno in cui confezionai la mia prima recensione per il vecchio ilCinemante.com e decisi che quella sarebbe dovuta essere la mia professione.

Ma c'è anche qualcosa di più, qualcosa che ha a che fare col senso di appartenenza, con la gratitudine nei confronti un'arte che così tanto mi aiutò a farmi sognare nei periodi meno allegri di quando ero bambino. Quella voglia di sognare, stupire e godere con un trip quasi da abuso di stupefacenti, senza effetti collaterali, che si trova soprattutto nel Cinema degli albori, quello che ancora non aveva un apparato industriale, quello che tra imposizioni di regime e ingenuità d'epoca si accostava alla Fotografia per superarla col movimento e che esprimeva un senso di meraviglia nei confronti di una tecnologia ormai alla portata ma ancora tutta da sperimentare.

Registi come il russo Dziga Vertov (nativo di Białystok, cittadina polacca al confine con la Bielorussia, al tempo appartenente all'Impero Russo) è proprio uno di quelli che si avvicina alla mia idea di regista, anzi no alla mia idea di Cineasta, ovvero di colui che si diverte a mostrare la realtà e a rifletterne l'autenticità con la deformazione dell'immagine e con un certo uso del montaggio. E' per ripagare i registi come Vertov, come Vigo, come Pabst, come Lang che continuo imperterritamente la mia ricerca di un futuro che, come diceva Steve Jobs nel suo ormai scontato, per il numero di volte in cui è stato citato, speech a Palo Alto, possa unire i puntini tra la mia condizione e la vita di questi passionali amanti delle emozioni su celluloide.

La carriera di Vertov è quasi interamente legata alla propaganda sovietica tra le due guerre mondiali; è stato il regista dei Kinopravda, ovvero i cinegiornali del regime, e dei documentari sulla vita nell'URSS di quegli anni. Il Cineocchio e L'Uomo Con la Macchina Da Presa sono i due grandi documentari che hanno lasciato il segno nello sviluppo delle forme espressive della cinematografia. Non sono tra di loro legati da alcun elemento narrativo, ma sul piano formale non si può negare che il primo abbia tirato la volata al secondo; si tratta di due opere esteticamente devastanti e che ancora oggi fanno scuola per le scelte stilistiche del suo autore soprattutto in sede di montaggio.

In questo senso associarli è d'obbligo, studiarli è il minimo per qualsiasi persona che ambisca a mettere il proprio marchio di fuoco su questa Arte per la quale vale la pena sacrificare intere esistenze, soprattutto quella del sottoscritto che senza Cinema sarebbe stata di gran lunga più povera.


Il Cineocchio (1924) by Dziga Vertov


Kino-glaz (1924)
di Dziga Vertov


Il cineocchio è implacabile e si insinua tra le vecchiette ubriache di vodka che ballano così come sotto le rotaie di un treno così come è in grado di riavvolgere il corso del tempo, tra carni da macello che tornano animali d'allevamento e schizzi d'acqua che sputano fuori tuffatori provetti. In un villaggio moscovita, simbolo dell'efficienza della società sovietica, due giovani pionieri affliggono sui muri dei manifesti che inducono le vecchiette a comprare la carne della cooperativa statale e a non lasciarsi truffare dai privati. I pionieri sono bene organizzati in capannoni e sono educati alla solidarietà verso i contadini e ai valori della comunione dei beni; allenano corpo e mente con esercizi ginnici e attività sociali.

Ma la forza inarrestabile del cineocchio si spinge ben oltre e arriva li dove compagno Lenin preferirebbe che non arrivasse: davanti ai senzatetto e dentro quei manicomi (i "pogrom") di cui, come dice una reclusa, il Comitato Centrale non può ignorare l'esistenza.

Le immagini filmate da Mikhail Kaufman vengono sublimate dalle didascalie che esaltano il potere del cineocchio di filmare qualsiasi aspetto della realtà, ma vengono anche messe in discussione dal montaggio di Elizaveta Svilova che sperimenta quel reverse che il Cinema riproporrà più volte fino a Le Regole Dell'Attrazione di Roger Avary: la resa estetica è strabiliante, con soluzioni stranianti come i personaggi che camminando all'indietro entrano dentro le proprie ombre.

Un'opera che ha gettato le basi per una rivoluzione espressiva che stupisce ancora oggi.



L'Uomo Con la Macchina Da Presa (1929) by Dziga Vertov




Chelovek C Kino-apparatom (1929)
di Dziga Vertov

Mikhail Kaufman (the cameraman)


A Mosca a Yalta e a Odessa un uomo con una telecamera montata su un cavalletto di legno si aggira tra i palazzi e tra le linee dei mezzi pubblici che si incrociano e riprende tutto; il caos cittadino, l'efficienza dei trasporti, gli sportivi inquadrati da angolazioni che si avvicinano moltissimo a quelle che Leni Riefenstahl userà per documentare le olimpiadi naziste del '38, la morte e la vita addirittura con la cronaca di un parto. Tutto è montato, con uso di dissolvenze incrociate, immagini al contrario già viste ne Il Cineocchio e dei veri split screen mozzafiato, e proiettato a velocità siderale davanti a una platea a bocca aperta.

Vertov filma la realtà e la traduce in suggestioni visive con un montaggio folle e che si sbizzarrisce come non mai in una ricerca di resa estetica che si apre al maggior numero di soluzioni: campi lunghi, medi, inquadrature sbieche che sfidano l'orientamento dello spettatore. Una composizione d'immagini che sfrutta il concetto di realismo per creare qualcosa di completamente opposto: una dimensione dove il ritmo frenetico somiglia a tanti tocchi di pennello per creare un quadro impressionista in movimento.  Un quadro che ingloba dramma e ironia, visioni oggettive e soggettive, linguaggio e metalinguaggio. Il tutto per dimostrare l'onnipotenza della macchina cinematografica e la sua infinita gamma di opportunità stilistiche.

Una telecamera inquadrata in modo compiaciuto, spesso sovrapposta a un occhio umano in dissolvenza. Ma c'è anche un aspetto bizarro, forse anche ambiguo: se la macchina da presa è la vera fonte di tutte le immagini, ma allora chi è che a sua volta la inquadra?

Un'opera così non poteva che suscitare perplessità da parte di chi voleva esercitarne pieno potere... la accusava di essere troppo formale. Forse la accusava di essere un capolavoro senza tempo e senza confini.


VP