
Già, perché nel frattempo dall'altra sponda del tevere i biancocelesti tornavano stabilmente in Serie A dopo i fuochi di calcio scommesse e retrocessioni sul campo dei tribolatissimi anni '80. E con Sergio Cragnotti iniziavano a costruire un ciclo fatto di investimenti in borsa e speculazioni finanziarie che li avrebbe portati a formare una grande squadra per dominare in territorio nazionale e europeo (Coppa delle Coppe, Supercoppa Europea).
Così Franco Sensi nel '97 decise che era ora di spettacolo strappando proprio agli odiati rivali l'allenatore che qualche anno prima a Foggia scoprì Signori e Baiano e creò il mito di Zemanlandia. Una terra in cui tutti i giocatori sono davvero uguali; fenomeni e onesti mestieranti che si piegano a un modulo (il 4-3-3) che secondo il tecnico è indiscutibile e immodificabile a ogni fase del match, il migliore per coprire il campo con una difesa alta a supportare il costante lavoro offensivo e che si affida esclusivamente al pressing sul portatore di palla avversario e al fuorigioco per eludere le trame di gioco altrui.
Con questa filosofia lo sconosciuto Zeman portò il Foggia in Serie A e sfiorò il titolo con una Lazio fatta non solo di Signori e Boksic, con cui puntualmente litigava quando l'ego del calciatore veniva fuori in tutta la sua vanità, ma anche di Chamot, Rambaudi e altra roba del genere. Arrivò secondo alle spalle della Juve della triade Moggi/Giraudo/Bettega e dell'inerzia arbitrale raramente (se non mai) a proprio svantaggio. Quella stessa Juve che diventò il suo principale nemico quando proprio alla Roma il boemo denunciò l'abuso di farmaci nel calcio accusando in primis proprio la società bianconera.

Una tifoseria che porta il nome di una Capitale e le memorie storiche di un Impero che dominò il mondo da ovest a est e da sud a nord. Una città che nel Novecento, insieme un po' a tutto il meridione, perse il treno della vera ricchezza industriale, che a settentrione avrebbe creato la ricchezza media del paese, e che anche nello sport nazionalpopolare fu declassata a provincia. Rispetto non solo a Milano e a Torino, Roma ha raccolto le briciole se pensiamo che a inizio e a metà del secolo scorso anche società ora di secondo piano come Bologna e Genoa vinsero il loro bottino.
È da quel giorno che ufficialmente nasce il complottismo, la feroce voglia di rivincita, quel sentirsi vittime, onesti, puri in un mondo di furbi, ladri e politicanti. E che trova in Zeman il nuovo Che Guevara, il comandante supremo delle lotte, il Santo da adorare alla follia. Accuse di doping a parte, è molto facile capirne il perché: Zeman, coi suoi schemi e la sua socialista gestione della squadra, vuole riportare il calcio quasi alla sua dimensione primordiale, alla sua dimensione di strada e di sport popolare. In questo modo coltiva l'ambizione manichea di irriderne l'industria, la politica delle pay tv e dei soldi che finanziano le società. Ovvero tutto ciò che permette a un Milan o a una Juventus di essere perennemente superiore alla concorrenza, strappandone i giocatori più forti.
Uno così non può non finire vittima di se stesso e di chi lo venera; soprattutto nell'Italia che inventò il catenaccio (i lanci di Suarez per gli attaccanti della grande Inter di Herrera), della tattica speculare all'avversario, dello studio delle fasi di gioco e dell'attuazione del modulo migliore in relazione alle varie situazioni. Nell'Italia della politica, che ovviamente trova nello sport più seguito dalla grande platea un terreno fertile per i suoi giochi.
Fatto sta che dopo due anni di Zeman (e di risultati più o meno positivi, con una tifoseria che però vive con paura quello che da li a breve succederà nell'altra sponda del Tevere), il presidente vuole vincere anche per sfruttare la cassa di risonanza del Giubileo del 2000: e per questo ingaggia esattamente l'anti Zeman, ovvero l'allenatore vincente e furbo per eccellenza, colui che sa cavalcare il libero mercato e tiene in pugno le redini dello spogliatoio da buon sergente di ferro: Capello.
È con lui che la Roma torna alla vittoria nazionale, con lo scudetto scucito alla Lazio, e tra gli infiniti festeggiamenti rionali, Zeman, il suo aplomb sovietico, la sua voce asettica e l'atteggiamento di chi vuole essere se stesso in controtendenza con un mondo che invece premia la brillantezza, il sorriso di facciata e anche l'ipocrisia, torna a essere un dolce ricordo di nostalgici del suo personaggio.
Un ricordo che riaffiora in tutta la sua carica retorica in modo violento quel fatidico giorno dell'estate 2004 in cui la Roma di un Sensi sulla via della malattia, e che vide pochi mesi prima infrangersi, grazie anche all'irruzione della Guardia di Finanza a Trigoria, l'opportunità di un cambio di proprietà che avrebbe portato in società i rubli dell'oligarchia russa, ufficializzò le dimissioni del tecnico Campione d'Italia 2001 che sorprendentemente, a dispetto di una dichiarazione alla tv nazionale che smentiva voci a tal proposito, passava alla Juventus.
Il popolo romanista si sentì tradito, quasi sotto shock, e poco importava se qualche mese prima Sensi screditò Capello invitandolo di fatto a trovarsi un'altra sistemazione. Iniziò un tormentone mediatico contro il tecnico di Pieris, secondo la tradizione popolare scappato di notte con la Mazda (allora sponsor ufficiale della Roma) alla corte della triade juventina, che riportò in auge il nome di Zeman, la sua onestà, la sua cultura del lavoro in barba alle ipocrisie dei palazzi del calcio.

Franco Sensi era malato e a occuparsi della società scese in campo la figlia Rosella, la cui politica fu fin da subito opposta a quella del padre. La giovane ragazza ex luissina era in cerca di appoggi politici e finì con l'accomodarsi al tavolo di trattive, procure, aiuti mediatici con personaggi di spicco: anche con gli acerrimi nemici Moggi e Galliani. Il pubblico, che nel frattempo viveva un'annata (la 2004/2005) in cui la Roma perdeva un derby con goal di Di Canio ancora una volta sotto la sud e rischiava la serie B cambiando quattro allenatori (Prandelli, Voeller, Del Neri, Conti), iniziò una campagna mediatica incessante a favore del ritorno del boemo.
Le tesi di gran parte della tifoseria erano che con la rosa dello scudetto capelliano, Zeman avrebbe divertito col suo gioco e avrebbe portato la Roma a vincere molto di più rispettando la vera etica dello sport. Finì che nell'estate del 2005, quando la Roma doveva scegliere il tecnico da cui ripartire tra le macerie di una retrocessione scampata all'ultima giornata, un grosso numero di tifosi si recò a Trigoria con volantini pro Zeman e contro Spalletti, il tecnico prescelto alla guida della squadra che aveva appena rifilato ai giallorossi tre goal all'Olimpico e raggiunto la Champions League nientemeno che con l'Udinese.

Poi finalmente ci fu la liberazione della Roma: Rosella Sensi e Italpetroli, dopo la morte del papà Franco, è costretta da Unicredit a vendere il suo asset più prestigioso. E a chi poteva andare questa società fondata su un'idea, un'immagine, di echi imperiali, di cenni storici, di epica gladiatoria se non a degli americani? Nel 2011 la nuova società viene fondata prima con Thomas DiBenedetto e poi James Pallotta presidente... le figure del calcio italiano in rappresentanza sono Mauro Baldissoni, Claudio Fenucci e soprattutto c'è il ritorno di Franco Baldini (direttore sportivo dello scudetto 2001), che dopo le esperienze con l'amico Capello in Spagna (Real) e Inghilterra (nazionale), stavolta come direttore generale, e l'arrivo di un direttore sportivo esperto di sudamerica e di certo calcio brillante come Walter Sabatini (ex giocatore della Roma negli anni '70, ma anche ex DS della Lazio di Lotito).
La rosa viene rivoluzionata, il 4-2-3-1 di eco spallettiano viene smantellato: Totti torna indietro tra centrocampo e trequarti, vengono presi il portiere vicecampione del mondo con l'Olanda Maarten Stekelenburg e talenti come Lamela e Osvaldo. L'obiettivo della nuova Roma è quello di fare un calcio brillante, europeista negli uomini e nella filosofia, che permetta alla società di presentarsi nel miglior modo possibile alla conquista dei mercati americani e asiatici. Gli americani vogliono fare business e esprimere uno stile importante. E il modello di riferimento non può che essere il Barcellona di Guardiola, una squadra quasi invincibile, che negli ultimi cinque anni ha fatto man bassa di tutto con interpreti favolosi e trame di gioco che sfidano quasi le leggi della natura.
Non è un caso che, in mancanza dell'opportunità di ingaggiare Guardiola stesso, la scelta vada a ricadere sull'allenatore del Barcellona che però gioca nella serie cadetta spagnola: Luis Enrique. La dirigenza americana vuole che l'intera società, dalle giovanili alla primavera alla prima squadra, impari a giocare allo stesso modo, proprio come in Catalunya succede con la celebra "cantera".
Ma per quanto Sabatini si dimostra bravo a scovare talenti allo stato brado, quindi da crescere e coltivare, gente come José Angel, Marquinho e Miralem Pjanic non riescono a fare ciò che invece Xavi, Masquerano e Iniesta fanno nel Barcellona. In più Stekelenburg si trova spesso a tu per tu con l'attaccante avversario, liberato in area di rigore da passaggi filtranti che tagliano come il burro una difesa altissima e che non riesce a assimilare il sistema di gioco.
La dirigenza persevera nelle scelte e nell'idea di fare un calcio propositivo. Rinnova la fiducia al tecnico asturiano per quanto questo si porti sul groppone due derby persi con un uomo in meno e fallo da rigore in area, due umiliazioni a Torino contro la Juve, un sesto posto tra poche luci e molte ombre, un'eliminazione cocente nei preliminari di Europa League contro lo Slovan Bratislava (livello da serie B italiana) che lascia i tifosi della Roma a casa il giovedì sera per due anni consecutivi. Un 4 a 0 all'Inter con l'Olimpico innevato è davvero troppo poco per consolarsi... evidentemente il buon Luis se ne rende conto e a fine anno dà le dimissioni, lasciando i soldi sulla scrivania di Trigoria e andandosene con grande stile con tanti ringraziamenti a tutti.
Ed è in questo momento che la lampadina si riaccende nei tifosi e nella dirigenza: il ritorno di Zeman significherebbe un'idea di calcio non così lontana da quella originaria e un boom di abbonamenti che riporterebbe, ancora una volta, la gente allo stadio per un grande spettacolo popolare. Quando Zeman tornò a Trigoria, appena 6 mesi fa, ma sembra un giorno disperso nella notte dei tempi, il popolo romanista che lo aveva sempre amato e difeso esultò come a un goal di Totti. E lo sguardo del boemo era felice, intriso di un sorriso liberatorio dopo le lacrime di commozione di un campionato di B vinto a Pescara con una squadra che all'inizio aveva ben altre ambizioni (al massimo un campionato tranquillo).

Di contro, un giornalista molto famoso nell'emittenza televisiva romana e in particolare nelle trasmissioni sulla terza squadra più tifata a Roma (ovvero la Juve), pubblicava un articolo sul boemo additando Zemanlandia come una sorta di versione calcistica del Comunismo. Il suddetto opinionista è molto facile da immaginare, sia nel suo aspetto fisico, sia nel suo atteggiamento professionale e di tifoso di calcio. D'altronde, come potrebbe essere un romano che tifa Juventus? E' ovvio, una persona che fin da bambino ha cercato di distaccarsi dall'animo sanguigno, viscerale e di pancia della città (arrivando a snobbare persino la più borghese lazialità), sputando veleno nei confronti della Roma e del romanismo dall'alto della sua adorazione per un'idea di stile e di superiorità. La stessa che provano i 14 milioni di tifosi che da Torino a Trapani, passando per Roma e Napoli, rinunciano al loro supporto per i nomi, i colori, le pancie dei loro luoghi di appartenenenza per abbracciare un ideale di mito nazionale collettivo, che se ne frega dei provincialismi e delle piangerie con arroganza e strafottenza.
Il pubblico romanista, dopo la seconda tourné della Roma tra Boston e New York costellata di incoraggianti vittorie contro squadre come Zeglebie Lubin, El Salvador e Liverpool, non immagina affatto che la vittoria al Meazza per 1 a 3 contro l'Inter alla seconda giornata non sarà altro che un fuoco di paglia. Anche coloro che per anni hanno creduto, con opinabile sicurezza, che il loro mister con la rosa che aveva avuto quel raccomandato infame di Capello avrebbe vinto minimo due scudetti e qualche coppa non arrivavano con l'immaginazione all'idea che Zeman potesse rivoluzionare tutte le gerarchie di forza dello spogliatoio della Roma. E che il Comunismo citato dal giornalista romano e juventino non era una suggestione così campata d'aria.
Zeman leva Stekelenburg, sì proprio lui, il vicecampione del mondo (che da quando è arrivato a Roma non ha mai avuto una difesa schierata e ordinata... una maledizione che gli costa tutt'ora le convocazioni in nazionale e che, probabilmente, gli alimenta un giustificato odio verso la squadra da cui ancora non è riuscito a fuggire), e costringe Sabatini a comprare uno strambo uruguagio che teoricamente dovrebbe assistere la difesa alta con una proprietà di palleggio importante e doti quasi da portiere volante.
Ma soprattutto Zeman leva De Rossi, l'eterno Capitan Futuro che vive nell'ombra (e nell'amicizia) della leadership tottiana, punto di riferimento imprescindibile della nazionale italiana e del calciomercato, ricercato da tutta Europa, e la cui adorazione (d'altronde quando non si vincono trofei si ama a dismisura quel poco che si ha... ovvero le bandiere, i tifosi in campo, che a Roma da Rocca a Totti sono una tradizione) ha obbligato la società a fare uno sforzo economico da 6 milioni l'anno. E lo sacrifica per mettere titolare inamovibile un giovanissimo greco (se vogliamo interessante, per quanto un po' lento nella corsa) che l'anno precedente il boemo notò in Serie B a Verona... e se ne innamorò.
E così i tifosi romanisti, dopo essersi divisi tra sensiani e antisensiani, stimolati dalla talvolta immorale spinta mediatica dell'etere radiofonico romano (con intere stazioni che parlano di Roma per 24 ore su 24, addirittura con le radiocronache dei settori giovanili), che pensavano di tornare a remare tutti dalla stessa parte contro un nemico in realtà si sono risvegliati più divisi che mai. E dentro le loro infinite dispute ci sono l'amore, l'odio, l'ammirazione e il disprezzo per calciatori superpagati e allenatore. Il professionismo in questa dialettica non c'entra affatto: è una pura questione di simboli, di idoli e labirinti di passioni. Addirittura nelle interviste pre e post partita la Juventus, che era un argomento predominante a inizio stagione, non trovava più spazio nelle domande incuriosite e nelle risposte asettiche del mister.

Il goal che spiana la strada all'incredibile vittoria del Cagliari (che aveva perso l'andata a tavolino per le inadempienze del suo presidente) all'Olimpico per 2 a 4 è esattamente la fine di Zeman e dell'ambizione di vincere con lui in panchina nei grandi palcoscenici nazionali e non solo. Equivale per certi versi al duello finale di Barry Lyndon che decreta il fallimento dello stesso nell'alta società settecentesca.

Personalmente, da tifoso della Roma, ho vissuto l'allontanamento di Zeman come una liberazione. Il giorno dopo Roma - Cagliari mi sentivo più leggero come se la Roma non avesse perso o, meglio, come se quei quattro goal di Sau e compagni fossero serviti a riportare la mia squadra del cuore fuori dalla pesantezza dell'ideologia e dell'inflessibilità.
Come molti altri tifosi dubbiosi sulla filosofia calcistica zemaniana, ho vissuto con fastidio la trasformazione da allenatore a mito filosofico e morale, passando per icona anticonformista, di un signore che al di fuori di tutto fa simpatia. Un signore dell'Europa Orientale diventato vittima del proprio stesso personaggio per colpa di chi gli ha innalzato una statua immaginaria: ne è succube tanto da mandarlo fuori dalla realtà dei fatti, soprattutto quando prima di arrivare a Roma in un'intervista pubblica etichettava Mourinho (uno che ha vinto col Porto, non col Manchester, la Champions League e ha portato il triplete a Milano dopo decenni di nulla) come un furbissimo catenacciaro che non aveva fatto vedere nulla di nuovo nel calcio.
Vista dall'esterno, però, la storia di Zeman appare come una parabola metropolitana che ci parla della società, dei suoi valori, dei suoi atteggiamenti, della curiosità e allo stesso tempo della repulsione anche ipocrita nei confronti di un uomo che è sempre voluto essere se stesso, senza piegarsi mai ai poteri forti. Un uomo che fa il suo mestiere con passione quasi artigiana e che probabilmente trova in provincia le condizioni necessarie affinché la sua Zemanlandia possa stupire il mondo.
D'altronde, ma come poteva far bene uno del genere in una società che vuole fare business e proporsi al mondo come multinazionale del calcio? Indipendentemente dal fatto che la squadra non aveva affatto gli uomini giusti per il suo 4-3-3, senza laterali fortissimi, senza difensori di certo calibro, a parte la piacevole sorpresa di Marquinhos, Zeman non c'entrava veramente nulla con la Roma di James Pallotta, degli americani, delle partnership con la Disney e la Volkswagen.

I romanisti che saranno sempre legati a lui avrebbero barattato anche tre scudetti con un Capello o un Mourinho per veder vincere la nostra Roma con il boemo in panchina. Perché la gente ha bisogno di credere nelle favole e, lo ammetto, forse in cuor mio speravo che Zdenek ce la facesse: avrebbe significato che nella vita anche gli eterni sfigati, quelli che non si piegano alle convenzioni della società, quelli senza peli sulla lingua ce la possono fare.
La fine di Zeman è come la fine della speranza di una classe operaia in Paradiso.
VP