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domenica 19 gennaio 2014

LA LIBERTÀ DEGLI STATI UNITI D'AMERICA (18/01/2014)

Questo articolo è dedicato a una persona che non c'è più e che l'avrebbe letto appena pubblicato. Non ho perso solo un fedele lettore del mio blog o delle mie cazzate, ma anche un uomo che mi ha cresciuto e che mi ha aiutato in tanti momenti difficili con la sua sobrietà e la sua autorevolezza talvolta graffiante.

Ciao Maurizio, spero che leggerai questo report dovunque tu sia.



Ci sono cose nella vita che si ripetono in modo stravagante: ogni volta che vado in America la vacanza non inizia bene. Sette anni fa a Los Angeles persi un bagaglio che ritrovai solo quattro giorni dopo, senza nessun aiuto di amici o di dipendenti di una compagnia aerea (e sotto un sole d'agosto implacabile), stavolta a New York ho preso una violentissima influenza.

Sul volo Londra / New York della British si sentono parlare tante voci italiane (e allora la crisi dov'è, direbbe mia nonna e tutta l'orchestra che canta il ritornello "i ristoranti so' sempre pieni"), tra cui la mia e quella della mia ragazza che riflettiamo sull'organizzazione dei venti giorni che passeremo a casa dei suoi: io voglio godermi la città e vivere momenti magici e leggeri, qualcosa di bello, al contrario Cait pensa ai genitori, ai parenti, a un modo per colmare la sua mancanza in famiglia come se la sua scelta di vivere a Roma fosse una colpa o una vergogna. L'intera vacanza sarà costellata da un continuo braccio di ferro tra queste due visioni del tempo che spenderemo in America.

Non faccio in tempo a sistemare le cose nella stanza della house riservata a me che mi scontro subito con il programma dei giorni successivi: è Natale e ci sono tante cose da fare prima di andare in città e baciarsi sul ponte di Brooklyn, ad esempio passare dai parenti che a Bellmore, quaranta minuti di treno da Penn Station, classico sobborgo famigliare di chi lavora in città e vuole le comodità della provincia (in pratica una La Storta), aspettavano Cait con tanta gioia e sorrisi. Sono risucchiato in un vortice di formalità e cenette speziate, con drink alcolici e gasati iniziali da happy hour, che secondo le usanze locali dovrebbero dare il senso al Natale.

C'è da dire che il Natale nella provincia USA ti accoglie davvero bene: ovvero con tutti i giardini delle casette con gli steccati pieni di lucine e di Santa Claus accesi. Ricorda clamorosamente la pubblicità della Coca Cola che vedevamo da bambini, quella in cui il tir di Babbo Natale portava la felicità e il colore a queste case che in Italia pensavamo fossero irreali ma che in America sono la grigia (anzi bianca) quotidianità. Mi chiedo quanto possa costare un tale consumo di elettricità, dato che se c'è una cosa che gli americani proprio non hanno è il senso della misura: in un reality sugli addobbi natalizi nelle case (e diciamolo da subito, nella tv americana, che l'influenza mi costringerà a guardare, tutto è un reality) la sorpresa per la sconvolta padrona è ritrovare la house completamente invasa di personaggi natalizi in un abbaglio complessivo da oscar del cattivo gusto, persino la mia ragazza rimane perplessa.

Per il resto ci sentiamo immediatamente tutti malissimo: io ho una specie di morsa allo stomaco che mi rende il respiro affannato, come se una mano mi volesse strangolare. Una sensazione orribile, che in seguito non risparmia nessuno, dal padre di Cait ai cugini a Cait stessa. Vivere la gestione di un malanno dall'interno di una famiglia americana, soprattutto nell'arco di una festività, è un'esperienza che mi permette di conoscere davvero in profondità la mentalità di questo paese.

In Italia un virus del genere farebbe correre tutti ai ripari, la gran parte degli eventi natalizi salterebbero, anche nel paese del Cattolicesimo, del potere della Chiesa: il rischio di attaccare malattie e di star male non vale una cena in famiglia, il benessere fisico per noi viene prima di tutto. Nell'America dei cognomi italoamericani e degli irlandesi che passarono per Ellis Island, e quindi nel paese dove tante etnie hanno portato i loro usi e costumi, la formalità è una cosa sacra e irrinunciabile. La tradizione popolare diventa positivismo allo stato puro; il giorno di Natale tutti vanno in bagno e, talvolta, lamentano fastidi gastrici, ma nessuno, ma proprio nessuno, rinuncia alle bevande frizzanti.

Anzi, la zia della mia ragazza, signora elegante e distinta, arriva con una bottiglia enorme di Grey Goose, la vodka francese più sopravvalutata nel rapporto qualità prezzo, e tanti strumenti da barman professionista: il suo ruolo è quello di fare i Cosmopolitan, ovvero il drink cool per eccellenza (e pazienza se io dico che è un po' femminile per i miei gusti). Il Natale a casa ha tre momenti davvero importanti: il primo è la mattina prima della festa e dell'arrivo dei parenti, lo scambio dei regali tra i genitori della mia ragazza e solo noi due (mia nonna mi ha fatto portare un grottesco, e apprezzato, pezzone di Parmigiano Reggiano), il secondo è nel pomeriggio quando tutti partecipano al buffet, il terzo è quando tutti escono per andare davanti alla casa di una zia gravemente malata per cantare canzoni natalizie: un momento tristissimo e drammatico, al quale sono stato coinvolto dal padre di Cait che mi ha trattato come un membro della sua famiglia.

Far parte di un nucleo di questo tipo significa caricarsi di responsabilità e ben presto capisco e giustifico il nervosismo della mia ragazza: solo dopo un malore evidente, impossibile da nascondere, Cait viene de-responsabilizzata, per due giorni, e quando chiedo al padre informazioni sul suo stato, lui mi risponde: "sta bene è solo un virus". Già, è solo un virus, il senso di appartenenza, l'obbligo di vedere persone che magari vorresti incontrare in altri contesti, è predominante. È come se tutti sentissero il rischio perdere qualcosa d'importante, la mancanza di onorare delle radici che un secolo fa in Europa (e non solo) furono già strappate ma che rimangono il tornaconto del proprio stare al mondo. D'altronde in un paese libero, libero davvero, c'è il pericolo che qualcosa se ne vada.

Libertà. Un concetto determinante per trattare gli Stati Uniti: cosa è la libertà, quali sono i pregi e i difetti della libertà, ci sono alternative alla libertà? Ne parlo con uno degli amici di Cait, il pomeriggio che andiamo nella casa dove tutti i ragazzi della buona provincia americana si riuniscono davanti all'albero di Natale e davanti al televisore a guardare film natalizi che i broadcast passano di continuo: il canadese A Christmas Story, il Grinch con Jim Carrey e soprattutto un classico con Julie Andrews nell'Austria nazista fatto proprio apposta per sentirsi buoni e liberi.

Peccato che il ragazzone con cui parlo, un biondone repubblicano conservatore che me lo immaginerei in Texas a sparare alle galline tra qualche anno, nel suo eurotrip abbia visitato Italia, Austria, Germania (paesi buoni) e non si sia addentrato nelle mortifere lande dove il Socialismo è attecchito proponendosi come alternativa alla libertà a stelle e strisce. La mia ragazza mi aveva avvertito, non è una festa per socialdemocratici e io me la cavo con tante risate e appena qualche racconto sulla polizia corrotta in Russia, al che il biondone mi chiede: "ma come fa un italiano ad andare da quelle parti, io non c'andrei mai!". E vabbè.

Un'altra cosa interessante di cui parliamo sono le differenze fisiche tra gli americani e gli europei. Se siete mai stati nel Nuovomondo sapete benissimo a cosa mi riferisco: vi aspettavate di incontrare Leonardo DiCaprio e Woody Allen e invece sono tutti ciccioni. Be' in realtà non sono tutti ciccioni, abitudini alimentari permettendo, ma la cosa che mi stupisce sempre è la loro conformazione fisica: voglio dire, nei film degli anni '70 loro erano come noi, stesse ossa, stesse stazze, invece oggi la forma delle loro spalle, ad esempio, mi sembra del tutto del tutto sproporzionata rispetto al resto del corpo. Anche loro lo sanno: si pensa agli effetti della carne di cavallo e degli ormoni nel latte.

O semplicemente negli anni '70 ancora c'erano prodotti genuini in gran quantità e non una varietà di fast food e di bevande in grado di spappolare il fegato da farti venire il mal di testa. Persino nella terra della libertà, nel posto in cui chiunque anche se sta male dice "I'm ok", nei tabelloni del treno che ci portano in città noto una pubblicità progresso dello Stato di New York che invita la popolazione a limitare il consumo di Coca Cola et similia. Si rischia la cecità, l'equilibrio psicofisico, uno stare al mondo accettabile.

Forse, piuttosto che metterla sulla morale o sul didascalico, farebbero bene a intervenire nella coscienza degli americani; una coscienza fatta di idee forti e di una vitalità da ostentare in tutti i modi. I loghi e le pubblicità che ti martellano dalla tv fino a ogni angolo di strada, riflettono un'idea che poi viene catapultata nei gusti dei clienti: un cibo buono per gli americani, persino per la mia ragazza che a Roma si è in parte disintossicata, ha un gusto forte, deciso, è piccante e ben studiato. In questo universo rosso ketchup il sapore delicato non trova spazio. È una filosofia di vita, mordere la mela, mordere il mondo. Si mangia messicano, i tacos, e giapponese, il sushi, anche le medicine per l'influenza sono caramellose. La pizza a Little Italy non ha la vera mozzarella ed è servita da camerieri albanesi che ci chiedono che lingua parliamo.

Anche il cibo buono, quello che provo alla Vigilia di Natale a casa di Jamie, una cugina di Cait che ha imboccato il viale scontato della vita con tanti figli (con cui la mia ragazza si ritrova a perfezione), è speziatissimo e portato da un simpaticissimo zio easy rider (con tanto di Harley nel parcheggio), padrone di un ristorante italiano che potrebbe essere il mio posto di lavoro il giorno che vorrò emigrare, che rimane affascinato dall'idea della pizza a taglio. Ci chiediamo perché in America non abbia preso piede e io propongo il mio punto di vista: in un paese con poca vita di vicoli e vita di piazza, con quelle strade lunghe e quelle distanze, non ti passa per la testa di prenderti un buon, sano, rustico, popolare pezzo di pizza. Ad ogni modo il pesce è buono e anche la carne lo sarebbe se non fosse Vigilia e in Italia non mi avessero insegnato che la carne il 24 diventa corpo di Cristo. Pensavano fossi vegetariano.

Un pregio straordinario però gli americani lo hanno, una cosa che purtroppo in Italia non c'è: ovvero la capacità di comprendere e ammirare una passione o una competenza. È da questo che nasce il professionismo d'alto livello, è questa la vera forza degli Stati Uniti. Ogni volta che ho provato ad esplicare un'idea tutti mi hanno sempre preso seriamente e mi hanno ascoltato. Alla festa di Jamie un simpatico omaccione, altro cugino di Cait, è andato a un Liquor Store per prendermi una bottiglia di Russian Standard, di cui parlavo gran bene. La passione è ascoltata e davvero valorizzata, in Italia non succede mai. D'altronde l'italiano è maestro a fare le cosiddette nozze coi fichi secchi, avanza competenze ed esperienze che non ha, si improvvisa di tutto pur di non sganciare soldi con cui fare la bella vita.

Gli americani invece vivono in un paese completamente basato sul consumo e su ritmi di lavoro enormi che li costringono quasi a fidarsi delle capacità altrui; non hanno tempo per pensare e hanno bisogno di continue guide su come affrontare le cose. Un popolo di individui manipolabili con un gran bisogno di dritte: il Paradiso per un umanista scartato dall'Europa dei filosofi.

Questo si nota dal tono di tutti quei commercial che per un socialdemocratico come me rappresentano il peggio del peggio: le pubblicità delle compagnie d'assicurazione sono dei veri contenitori di angosce e immoralità a partire dall'espressione dello speaker, che inizialmente è rincuorante, da buon padre di famiglia, per poi trasformarsi in un allarmante ghigno di terrore quando fa una sorta di "io te l'ho detto cosa fare, se non ti va, problemi tuoi".

È sempre la libertà di decidere che gli americani si ritrovano, anche se libertà significa autodistruggersi e non guardare al futuro. D'altro canto questo è un paese che, senza un grande passato, vive pedissequamente al presente e del presente esalta i valori. Per quanto mi riguarda, se non avessi guardato al futuro, ovvero dal 27 al 29 dicembre, forse avrei passato il Capodanno a casa con un bel febbrone a tanti fahrenheit (da cui sottrarre 32 e poi dividere per 1,8), invece io mi sono preso la mia libertà di rimanere fermo a letto per due giorni consecutivi, sotto due europeissime e insapori tachipirine, e mi sono salvato.

Nel frattempo la tv americana dà il meglio di sé: ad esempio Jerry Springer, ex sindaco democratico di Cincinnati (ma che bello!), ogni mattina delizia l'America delle casalinghe con il suo show, vero e proprio compendio di trash e ipocrisia. Due uomini o due donne si fronteggiano e raccontano alla platea indemoniata i loro vizi e peccati, fatti di tradimenti e bugie, e se le danno di santa ragione con megarisse dove un bicchiere d'acqua per calmare le parti diventa un pretesto studiato a tavolino per tirarselo in faccia e dove Springer fa il finto moralista di gran gusto. Invece, molto più serio, la notte ci si diverte con Cops, in pratica la versione americana del format radiofonico che in Italia conosciamo come Doppia Vela 21 di Giulo Galasso: ovvero la cronaca di missioni della polizia, tra ladri e trafficanti, quasi tutti ispanici. È in questo programma che la realtà ci appare in tutta la sua crudezza: dalla costa ovest a est, dalla California alla Florida, dallo Stato di Washington a quello di New York, la provincia americana è tutta terribilmente uguale. Come in Russia ci sono i casermoni grigi di Stalin, in America al di fuori dei grattaceli è tutto un labirinto di casette bianche con gli steccati, una provincia vale l'altra, tutto sembra esattamente lo stesso.

Fortuna che c'è New York e l'Empire State Building, che per venti giorni ho sognato anche di notte. Di momenti belli in città ce ne sono stati, ma la mia ragazza è rimasta delusa dalla mia freddezza; secondo lei non capisco il fascino e lo spirito della Grande Mela, che ho bollato come la City di Londra moltiplicata per otto e senza la parte storica. E non è una sensazione data dal fatto che semplicemente Londra è più bella di New York (come non potrebbe esserlo, a Londra si respira la brezza del tempo che fu a New York molto di meno), ma anche dal fatto che in America, vuoi o non vuoi, anche in una città con valori vicini all'Europa, non mi sento a casa mia, al contrario della capitale inglese che subito mi coccolò con le sue opportunità.

Brooklyn Bridge è bello, le mille luci che sognavamo nei film da bambini pure, il MOMA e il Metropolitan valgono il biglietto, ma rimane pur sempre New York, un posto che forse ha perso tanto della sua particolarità di metropoli fatta di grattacieli. Se Mosca, che nel XX secolo le ha conteso il posto di città più importante del mondo, ha perso la sua Guerra Fredda, d'altro canto ha mantenuto un'inciviltà e uno spirito di impero decadente, in quanto decaduto, che la rende straordinariamente particolare e affascinante.

La vincitrice New York ha imposto il suo modello al mondo, in ogni angolo d'Europa o dell'Asia sorgono new towns continuamente, quartieri moderni con grattaceli e luci. Oggi la città col più grande numero è Shanghai, che nel 1980 non ne aveva neanche uno. Central Park è bella, soprattutto con la neve, Times Square ha sempre un suo certo fascino commerciale, soprattutto a Capodanno, quando una palla cade da un orologio e tanti pezzi di carta arricchiscono fotografie di grande impatto visivo, mentre intorno a noi tanti ispanici, pare ci fossero solo loro, gioiscono dopo aver atteso un intero pomeriggio nel freddo e sostenuto l'immagine di un'America vincente e spettacolare.

Anche questa forse è libertà.


VP