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mercoledì 27 novembre 2013

IL SENSO DELLA CRITICA NEL XXI SECOLO (27/11/2013)

Come ben saprete io mi sento a tutti gli effetti un critico eppure dalle mie recensioni o dalle mie idee sull'estetica cinematografica non ci prendo un becco di un quattrino: sono quasi sette anni che non collaboro con nessuna testata, non mi mandano più alle anteprime riservate alla stampa, mi tengo alla larga da qualsiasi festival anche se ce l'ho sotto casa da quando Veltroni decise di puntare i riflettori sull'Auditorium investendo tante tante breccole (come diceva Alex di A Clockwork Orange) attinte dai fondi statali.

Non molti invece sanno che le mie collaborazioni con giornali telematici iniziano addirittura nel '98, quando avevo appena 15 anni e che per quattro edizioni ho frequentato il Lido di Venezia dal 30 agosto all'11 settembre. Fino ad allora di Peckinpah avevo visto solo Il Mucchio Selvaggio, Solaris era l'unico film russo che aveva degnato la mia attenzione, Theo Angelopoulos era uno che faceva dei film improbabili che mi spaventava vedere anche solo per la loro lunghezza: diciamo la verità, a 15 anni ero ignorante vero e mi esaltava l'idea di mandare la prima mezz'ora di Arancia Meccanica in loop e mi sentivo un grande conoscitore di cinema per aver visto e amato Velluto Blu di Lynch (quando ancora il suo nome non era sulla bocca di tutti) e addirittura Exotica di Atom Egoyan.

A pensarci bene le poche volte che mi ritrovo a passeggiare tra gli affollatissimi corridoi dell'Auditorium rivedo il mio spirito adolescenziale negli occhi e nelle bocche di tutta quella gente che sento parlare di cinema, solitamente di Lynch, Cronenberg, Moretti, Sorrentino e qualche volta di Garrone. E penso sempre a come io sia cambiato, a quanto allora nel '98 fossi felice di far parte di un team di lavoro che non mi pagava ma mi mandava in giro, che mi permetteva di iniziare il conteggio dei pezzi per diventare dopo due anni giornalista pubblicista, che mi dava la possibilità di ritrovarmi accanto a un Enrico Magrelli o un Mauro Gervasini nelle proiezioni riservate alla stampa. Ho ricordi dolcissimi delle mattine in cui facevo sega a scuola perché c'era la proiezione del nuovo blockbuster della UIP nella saletta degli studi della stessa compagnia a via Bissolati che ora non c'è più. Così come amavo andare a via degli Scipioni alla redazione della mia rivista per dire ai miei collaboratori che il film non era granché.

E capisco, voltandomi indietro, quanto più la mia cultura cinematografica si arricchiva di nozioni storiche e visioni d'autore (la Hollywood classica, le avanguardie, il cinema sovietico, quello iraniano) più la voglia di parlare e scrivere di cinema andava ad affievolirsi nel senso più mondano del termine. Tanta, troppa gente parla di cinema spesso senza saperne: non è possibile che tanti redattori, che tuttora ricoprono ruoli di tutto rispetto in riviste anche prestigiose, reputino Drive e più in generale il cinema di Winding Refn rivoluzionario. A ogni discussione privata tra me e uno di questi brillanti descrittori dell'emozione filmica sorgono dubbi su dubbi che, grazie ad alcuni stratagemmi dialettici, riesco a tramutare in certezze: ma l'hanno mai visti i noir degli anni '40, i film di Jacques Tourneur, capolavori come Le Catene Della Colpa? No, perché si dà il caso che Drive è il noir californiano nella sua forma più classica, esattamente l'essenza del non rivoluzionario, un po' mascherata dall'abilità del regista danese di creare piani sequenza d'effetto come quello dell'ascensore.

Ma il punto è un altro e affonda le sue radici in un'altra esperienza passata: nel '99 ero alla Fiera Di Roma per un appuntamento tecnologico (allora ero anche un videogiocatore di livello) e fui attratto da un padiglione dove si presentava una piattaforma di comparazione di prezzi e servizi che esiste tuttora e che si chiama Dooyoo. Su questo sito era possibile inserire recensione di qualsiasi prodotto, dal videogioco al ferro da stiro alla lavatrice al film: c'erano anche le stellette che fino ad allora si erano viste solo sui Dizionari dei Film. Davanti a un computer allestito per provare il sito (e con un imprenditore della start up che mi invitò a scrivere una recensione di un film così tanto per rendermi conto) capii che qualcosa stava cambiando.

Capii che quando la connessione a internet sarebbe stata velocissima e alla portata di tutti allora qualsiasi persona sarebbe stata in grado di scrivere recensioni e che la critica avrebbe perso una sua autenticità per sottomettersi alla logica della democratizzazione culturale che il web avrebbe portato. Oggi che la storia dell'informatica si è sviluppata in tutto il suo splendore possiamo leggere su siti di riviste amatissime e prestigiose gli angoli delle recensioni dei lettori, che spesso sono più lette anche di quelle ufficiali dei redattori della rivista.

Internet ha di fatto reso possibile l'appropriazione di qualsiasi tipo di materiale, si è sostituito ai festival per la distribuzione e la possibilità di usufruire di cinematografie lontane che spesse volte non venivano distribuite nei theatrical (eliminando dunque il vero senso di un festival) e soprattutto ha dato opportunità a qualsiasi persona di farsi una cultura propria e di conseguenza la possibilità di parlare e giudicare i film.

E qui si entra nel cuore del problema, si entra nel dibattito sul senso della critica, su ciò che un critico è o che dovrebbe essere, sul ruolo sociale del critico che le mille opportunità di Internet hanno brutalizzato. Fino all'avvento del web per diventare critici si doveva studiare, si dovevano comprare riviste, si dovevano noleggiare vhs, si dovevano comprare saggi, bisognava in parole povere finanziare la propria competenza per avere più nozioni degli altri e, di conseguenza, arricchire i propri articoli della consapevolezza del cinema, della sua storia, dei film che hanno creato e sviluppato i generi dal muto ai giorni nostri.

Soprattutto si diventava critici quando si entrava nelle redazioni dei giornali, si diventava giornalisti con un iter ben preciso, una via crucis da intraprendere prima di conquistare l'agognato posto. Ma soprattutto un critico era tale quando nei suoi articoli, nei suoi sproloqui, nelle sue interviste a registi e attori, dimostrava di possedere l'arte di mettere in parole, spiegare le immagini arricchendo il bagaglio culturale di un vero e proprio genere letterario.

Un critico bravo deve valutare un film nel suo rapporto con la storia filmica e non solo dell'autore che lo ha diretto, talvolta lo deve saper collocare nella storia di un genere cinematografico e quel genere lo deve conoscere bene, lo deve aver amato, lo deve portare nel cuore. Un critico bravo vede tutti i film e ama tutti i generi e discerne il bene dal male attraverso un'etica estetica in cui la storia e lo sguardo danzano coccolate dal ricordo delle immagini.

E soprattutto un bravo critico non usa i film per valorizzare socialmente se stesso, per mostrare la propria abilità nel parlare di un argomento molte volte glamour e accattivante come può essere il cinema, una disciplina che può arricchire facilmente la propria personalità negli occhi altrui. Il bravo critico ama le immagini e ama i film molto prima di amare se stesso, ha l'obbligo morale di parlare di un piacevole ultimo episodio di Batman o di un seducente viaggio nei territori di Lynch quanto delle sette ore e mezzo immerse nella pianura ungherese di Sátántangó di Béla Tarr: amare quei film che sono la negazione dello spettacolo e la visione di un cinema che va al di là di se stesso.

Ma per avere una dignità il critico cinematografico deve vivere, deve esistere e deve essere riconosciuto socialmente. La critica deve essere una professione, un'abilità intellettuale che deve servire al pubblico non a dire cosa è bello o brutto, ma ad aiutare a interpretare un prodotto, tradurre le intenzioni del regista e le suggestioni delle immagini in parole. E questa è una competenza, una predisposizione che nessuno di coloro che scrivono le recensioni dei lettori sul portale online di Film Tv può mai avere.

Sono cose che bisogna sentire, che nascono da un rapporto intimo ed esclusivo con la materia trattata. In questo senso la mia passione per il cinema non nasce da un desiderio sociale, dalla voglia di arricchire la mia persona nel contesto sociale a cui appartengo. È qualcosa che nasce dalla solitudine, spesse volte dalla malattia, dalla mancanza di contatti umani che mi ha fatto diventare un inguaribile amante delle cose.

E questo va direttamente in controtendenza con ciò che Internet negli anni è diventato: uno strumento che ha reso l'uomo sempre più animale sociale, rinchiuso con gli occhi fissi sullo schermo di un laptop ma allo stesso tempo attivo sui social network che gli permettono di avere una sorta di ubiquità nelle relazioni con più persone. Il critico del web ha perso l'autorevolezza che i decenni passati avevano dato lustro a Ghezzi, a Mereghetti, a Tullio Kezich e diventa preda di un mondo al ribasso, di un mondo in cui l'attenzione della gente diminuisce a fronte di tanti interessi e stimoli culturali che si moltiplicano a dismisura tanto da risultare ingestibili e impossibili da seguire con la stessa intensità.

Un mondo così non può che significare una cosa: la perdita di potere contrattuale di un critico e del giornalismo in generale. I soldi ormai si fanno con le visualizzazioni online, addirittura tramite il traffico di dati, perfino la pornografia oggi si basa su questo. È un libero mercato selvaggio e caotico che rappresenta le condizioni peggiori per la vera critica; un mondo che fa straordinariamente il gioco di tutti quelli che non hanno mai considerato il cinema un'arte, che hanno detestato lo snobismo e il gioco intellettuale della critica, talvolta schierata politicamente e ferma su posizioni altezzose per il pubblico medio e il ceto piccolo borghese che col web va in paradiso.

Ovvio che se il gioco è questo una rivista come quella in cui lavoravo perde ciò che ho sempre ritenuto un punto fermo della critica cinematografica, ciò per cui ho amato e amo tuttora questa disciplina: la coerenza. Era il 2001 quando fui mandato alla prima di un film di Carlo Verdone che stroncai senza pietà l'indomani: la mia recensione fu pubblicata regolarmente dai miei collaboratori salvo poi essere rimpiazzata tre settimane dopo con un'altra assai mediocre che parlava bene del film. Qualche giorno ancora più tardi la mia rivista pubblicò un'intervista esclusiva allo stesso Verdone che prese più visualizzazioni di tutte le mie recensioni messe insieme.

Dunque è ovvio che se il metro di valutazione del successo di un articolo è la visualizzazione dello stesso una rivista, soprattutto medio piccola come quella in cui collaboravo, avrà l'interesse di ingraziarsi un personaggio nazionalpopolare con articoli positivi da barattare con interviste esclusive. Allora, a 18 anni, mi sentii tradito, deluso, fu l'inizio della mia rottura con le redazioni, la fine del mio conteggio per diventare pubblicista. Ieri, come oggi, non ne voglio più sapere.

Anche perché i giornali non assumono più e di tutto hanno bisogno tranne che di critici cinematografici, a quella roba ci pensa già il popolo e la sua coscienza, l'unica a generare utili. Me lo spiegò bene il caporedattore di un quotidiano tendente a destra (in politica) che a Torino venne a parlare proprio ad un master di critica cinematografica che io frequentai nell'estate del 2012. Ci raccontò di come fosse subissato di richieste di lavoro da aspiranti critici di cinema, persone che gli facevano tenerezza anche un po' pena, email da cestinare inesorabilmente. Ci portò però un esempio di speranza, un'indicazione di ciò che poteva e che potrebbe essere la critica nel futuro: l'esempio del youtuber Yotobi, un giovane ragazzo che parla di film e che è diventato una vera e propria star del web grazie ai simpaticissimi sketch che dissemina nelle sue recensioni.

Peccato però che Yotobi non è un critico o almeno, al contrario di ciò che affermava il caporedattore di uno dei più importanti giornali del paese, non adempie a nulla di ciò che la critica necessita. Innanzitutto molto furbescamente il buon Yotobi parla di film brutti, usa scene pietose di film osceni come quelli di Moccia o come Soft Air come assist per far ridere i suoi spettatori. Nei filmati di Yotobi non c'è nulla di provocatorio, di esteticamente etico, di poetico nell'affrontare una materia che è e sarà per sempre un genere letterario. Yotobi è uno showman, non un critico. È il prodotto popolare di un mondo come quello internauta dove il vero gioco è attrarre l'attenzione di più persone possibili nel miglior modo possibile.

La critica non è questo, perché la verità dei fatti è che non c'è niente di democratico in essa. La critica cinematografica è una passione elitaria, ha bisogno di metodo e riflessione, di essere trattata come un monarca davanti un popolo di spettatori.

E forse Internet, che tutti noi all'inizio pensavamo terreno di opportunità, ne è il più grande nemico, quello che ucciderà ciò che per noi è più sacro.


VP