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mercoledì 5 marzo 2014

IL MIO ROSICARE È FIGLIO DELL'AMORE: CONSIDERAZIONI SULLA NOTTE DEGLI OSCAR (05/03/2014)

Domenica mi sono svegliato nel cuore della notte: c'erano gli Oscar e mai me li sarei persi, almeno quest'anno. Il motivo è legato non solo al fatto che un film italiano mediocre ma ben visto oltreoceano stesse per ricevere quella statuetta che mai glorificò le carriere di certi Pier Paolo, Werner o di un certo Stanley; ma anche e soprattutto per assistere all'ennesimo insulto da parte dell'Academy verso quel grande autore che è Scorsese, per il suo amore verso un cinema vero, anche provocatorio, che spinge lo spettatore medio a riflettere sulle contraddizioni sociali, e verso il suo formidabile, ancora giovane e bello, intelligentissimo interprete.

L'Oscar per Miglior Attore Protagonista è andato a Matthew McConaughey e in quel caso alzo le mani: purtroppo non l'ho potuto ammirare in Dallas Buyers Club, il fisico, e gli esercenti di Roma, non me l'hanno permesso, ma avrei voluto davvero vederlo, rigorosamente in originale, e tendo a fidarmi che la sua prova texana sia stata superba, tanto come superbi furono quei cinque minuti di The Wolf Of Wall Street in cui ha letteralmente bucato lo schermo con pochi tocchi di genio.

Ma il problema è un altro e niente ha a che vedere col grande Matthew: in lizza c'erano altri due mostri del performing come il bistrattato Leonardo e l'impressionante Christian, che più che perdere davvero il confronto con McConaughey hanno scontato il fatto essere nominati per due film spettacolari e provocatori, opere che mettono in discussione i valori su cui poggia la società statunitense, il capitalismo tra denaro, successo e truffe organizzate, e che restituiscono una volontà di fare cinema che apra le porte della coscienza al grande pubblico. La prima cosa che McConaughey ha fatto dopo la sua proclamazione è stata abbracciare il rivale, compagno di set scorsesiano, e devo essere sincero: il siparietto tra i due è stato divertente, crudele ma divertente: in cinque secondi hanno espresso quel misto di felicità, imprecazione nascosta in un applauso e in un sorriso da cui stava per sgorgare una lacrima e consapevolezza sulla disonestà politicamente corretta con cui i premi vengono consegnati.

Ad esempio Scorsese un Oscar l'ha vinto, ma per un film che tutto era (divertente, spettacolare, scritto benissimo) tranne che un capolavoro: The Departed. E dire che i membri dell'Academy ne avevano di scelte, per consacrare il massimo cantore dello stile di vita americano e non solo, dal 1969 ad oggi: Mean Streets (1972), Taxi Driver (1976), Raging Bull (1980), The King Of Comedy (1983), After Hours (1985), The Last Temptation Of Christ (1988), Godfellas (1990), The Age Of Innocence (1993), Casino (1995). Insomma i titoli si sprecano.

O meglio, come diceva un grande moderato colluso con poteri forti (essendo stato lui stesso un potere forte), "a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca": l'Academy tende a premiare sempre i grandi autori nelle loro prove meno radicali, meno provocatorie, ovvero quelle che non s'azzardano a mettere le pulci in un sistema, ma che molto classicamente ricalcano l'insieme di valori che l'establishment americano ha deciso per il suo popolo. L'Olocausto e la schiavitù dei neri, soprattutto quest'anno, il ricongiungimento familiare, il nazionalismo a stelle e strisce, i sentimenti semplici di personaggi verso cui qualsiasi americano medio si può rivedere, sono tutti i temi su cui gli Stati Uniti d'America si appoggiano per educare i propri cittadini, un insieme di elementi che rendono la vita della gente giusta, ovvero "right", elementi sublimati dalla vittoria di un premio che negli anni l'industria hollywoodiana ha reso il più prestigioso del mondo nell'immaginario collettivo: in pratica una cultura autoreferenziale, ovvero che premia se stessa e ciò che vuole promuovere al resto del mondo occidentale.

Non stupisce quindi che il Benigni Comunista di Berlinguer Ti Voglio Bene sia sconosciuto al pubblico americano, mentre quello che cercava di sopravvivere ad Auschwitz abbia fatto commuovere il mondo rilanciando la propria immagine intellettuale verso la società borghese. Così come non stupisce che i fratelli Coen abbiano vinto grazie a due bei thriller drammatici come Fargo o No Country For Old Men e non grazie al mito di Drugo Lebowski e alla sua California svogliata e bizzarra.

Così come, se guardiamo al passato, non stupisce che nella storia degli Academy Awards gli Oscar dati al Miglior Film Straniero abbiano riguardato appena 5 volte i paesi retti da un regime Comunista: tre volte l'URSS (peraltro una con l'Akira Kurosawa di Dersu Uzala) e due la Cecoslovacchia: in pratica a Hollywood, prima dell'exploit di Hong Kong (ovvero quando la Francia e il Festival di Cannes puntarono alla grande sulla promozione e divulgazione del ricchissimo cinema asiatico), la Cina era sconosciuta, l'Ungheria pure, la Yugoslavia e la Polonia venivano nominate ma puntualmente se ne tornavano a casa.

È una logica ideologica, alienante per certi versi, che va contro il cinema inteso come forma d'arte e non di aggregazione culturale e politica. E questo riguarda tutti, perché la vittoria di un Oscar ha il potere di triplicare le quotazioni di un artista a livelli internazionali, con tutto il peso di un potere contrattuale che aumenta in modo esponenziale.

Anche l'Italia: quando lo speaker ha annunciato "and the Oscar goes to The Great Beauty" io ho avuto quasi un mancamento: non perché voglia fare il bastian contrario o il rosicone, come dicono molti post su Facebook l'indomani della nuova gloria nazionale. Ma perché in quel sorriso a mille denti di uno sgargiante Servillo in smoking, dietro a quel volpone di Sorrentino che ringraziava Roma, Napoli, i Talking Heads e Maradona, c'è la consacrazione di un altro sistema, ovvero quello per cui qualsiasi film nostrano che seduca con la riproposizione di panorami romani o regionali tipici dell'italietta un po' mondana e provinciale, fatta di pensatori, suore e dolce far niente, viene riconosciuto oltreoceano che portatore di una bellezza su schermo in grado di esaltare le capacità espressive del cinema.

A me Sorrentino è antipatico a pelle e per me è un regista che gira benissimo e che si circonda di professionisti straordinari, Luca Bigazzi che con le sue luci da Oscar, lui sì, da solo vale il film; parte da spunti e idee interessanti salvo poi arenarsi, forse rifugiarsi, nel messaggio popolare e didascalico, ovvero compreso dal grande pubblico che affolla le sue sale e che decretano il suo rango di autore. Ho già detto e scritto cosa penso del suo film e non mi va di ripetermi; fatto sta che la vittoria di quel tipo di cinema, di quel tipo di narrazione, di quel tipo di furbizia che mescola elementi interessanti ed esigenze di fidelizzare il popolo sta anche a significare la sconfitta di un cinema ideale, quello che abbiamo sempre amato, quello che ci insegna a guardare le cose con rigore interrogandoci su quello che Adorno chiamava "l'altro del mondo".

La Roma di Sorrentino, così come in parte quella di Fellini, quella che piace agli americani che adorano il folklore all'amatriciana, non è la Roma che amo. Non è quella borgatara del Pigneto di Accattone o quella delle bettole coi topi del matrimonio di Mamma Roma. Dubito che agli americani piacesse quella Roma, la Roma di Pasolini, degli intellettuali, la Roma della freddezza dell'EUR, la Tiburtina filmata da Elio Petri. Le baracche, le urla di un popolo che soffre.

L'Academy ha deciso che possiamo anche essere tormentati, l'importante è che non ci dimentichiamo mai della bellezza, del chiacchiericcio, della seduzione, della società.

Il positivismo è una forma di dittatura.


VP