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sabato 18 gennaio 2014

TONI SERVILLO È UN BRAVO IMBECILLE (17/01/2014)



Sapete in due anni di Master alla LUISS cosa mi è più rimasto? Una lezione di Paolo Boccardelli, docente di economia, sulle differenze tra il sistema italiano e americano dell'industria cinematografica. Il professore spiegava con sagacia che un libero mercato come quello statunitense sia capace di sfornare nuove leve così come d'abbassare le quotazioni di mostri sacri come De Niro, che di film in film sono costretti a dosare bene parole e scegliere i progetti giusti per non finire fuori dai giochi. E in effetti tanti grandissimi attori americani, mi vengono in mente Rutger Hauer e Harvey Keitel, più volte nelle loro carriere si sono ritrovati in progetti di serie inferiore per una gestione dei propri personaggi non in linea con il loro genio.

Invece nell'Italia della videocrazia e della bravura assodata, un qualsiasi buon Elio Germano si consacra per sempre nel rispetto da parte del pubblico e della critica raggiungendo un potere contrattuale con assai pochi limiti rispetto alla grandezza delle produzioni. In un sistema del genere chi fa spettacolo continua a farlo imperterrito, chi vorrebbe entrare negli ambienti si trova una porta sbattuta in faccia.

Negli ultimi 20 anni l'Italia è stata capace di sfornare un gruzzolo di giovani facce e due attori diventati veri punti di riferimento del cinema di qualità: Toni Servillo e Roberto Herlitzka. Premettendo che preferisco il secondo, pur con tutti i tic da eterno Aldo Moro o vecchio decrepito, c'è da dire che il buon Toni di strada ne ha fatta da quando nel '97 saliva il vulcano del mediocre e corale I Vesuviani: da Martone e Sorrentino ha impreziosito il cinema italiano di interpretazioni eccellenti (Andreotti, il finto Gorbaciof, il contabile delle Vele) fino al successo transoceanico de La Grande Bellezza.

L'ultima, celebrata, opera di Sorrentino non è un bel film e l'ho scritto, tuttavia il modo barocco di descrivere Roma e i suoi salotti, una certa falsa smania felliniana, lo rende accattivante agli occhi degli americani. Golden Globe e candidatura a miglior film straniero sono, se già ce ne fosse stato il bisogno, la matematica certezza di ciò che gli americani amano di noi, la nostra pigrizia, il nostro parlare del nulla che spesso ci porta a una bellezza formale.

Ma quando il successo diventa così oggettivo e riconosciuto spesso il cervello prende il volo della vanità e dell'insofferenza verso la critica. Gli insulti di Servillo alla speaker di RAI News 24 per una considerazione del tutto legittima e assolutamente inoffensiva sono il marchio di fabbrica dell'arroganza cafona e nazional popolare italiana. Secondo Toni, in finto fuori campo, tutti dovrebbero complimentarsi e gonfiarsi il petto per il risultato raggiunto dal cinema (sic!) italiano.

Premettendo che il nazionalismo è una cosa stupida in qualsiasi emisfero e che non necessariamente io mi debba sentire rappresentato da un film che parla di Roma, la mia città, con gli occhi dei napoletani che fanno voli pindarici su un'amaca davanti al Colosseo, alla Notte Degli Oscar spero che il Vinterberg de Il Sospetto faccia venire qualche peccato di gola ai giurati o che Il Passato di Asghar Farhadi li abbia commossi.

Il motivo extra film è chiaro: Servillo, e Sorrentino, dovrebbero ricordare che la critica, ovvero quella che spinge le opere culturalmente valide, ha aiutato molto il tipo di cinema che i due partenopei hanno avuto la fortuna di girare. È grazie ai critici, anche un po' rompicoglioni, che un film straordinario come Teatro Di Guerra di Martone (con Servillo) viene ricordato ed è stato coccolato nel ventennio berlusconiano e del pubblico televisivo che cerca Zelig al cinema.

Allora nessun grande attore, neanche De Niro, può permettersi ciò che ha fatto Servillo in onda, nel pieno delle sue facoltà. E Carlo Verdone, ormai sempre più ombra di se stesso e alla ricerca di stimoli che non riesce più ad avere, farebbe bene a non giustificare la mancanza di stile di chi sta sputando nel piatto dove ha mangiato e che vorrebbe, con la sua volgarità, richiamare al nazionalismo l'intero popolo italiano.

Ovvero quello che decreta ogni anno la vittorie al botteghino di un Checco Zalone o de I Soliti Idioti.


VP