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martedì 27 agosto 2013

ELEGÌA DELLA ROMA DI JAMES PALLOTTA (27/08/2013)

Oggi è il 27 luglio e sono tre mesi dal day after della grande disfatta, quella che il giorno dell'Open Day della nuova stagione giallorossa 2013/14 un biplano che sorvolava l'Olimpico ci ricordava con un messaggio che si aggiungeva alla già lunga seria di botte e risposte a suon di voli sui litorali romani e anche sulla Supercoppa Italiana, dove una grande Juve fece pagare a Lotito il prezzo del cambio di sede dell'evento, tradizionalmente da disputare in casa della squadra Campione d'Italia.

Quel 26 maggio di cui "la verità reale è che v'avemo fatto male" io c'ero; ero partito da casa già ubriaco, con tre bottiglie di Guinness scura sullo stomaco, una maglia d'annata col fascio, un biglietto di Distinti Sud Est, che quando ero bambino si chiamavano semplicemente Distinti Est, e un costume sotto i jeans per un bagno euforico a Fontana Di Trevi con un caro amico che stava in Monte Mario e con cui mi ero dato una punta all'Obelisco in caso di vittoria.

Come ormai tutti sanno, non andò esattamente bene, tra la performance imbarazzante di uno showman coreano che nella follia di questi tempi è riuscito a raggiungere milioni su milioni di click su Youtube con un pezzo simil dance anni '90, talmente banale da ficcarsi nel cervello in loop, e una partita altrettanto imbarazzante della Roma che riuscì a tirare in porta solo con una ciabattata di Destro.

Cinque minuti prima del novantesimo io decisi di abbandonare lo stadio, non per rabbia o rifiuto di vedere quegli altri esultare alla faccia nostra, ma per saggiare l'atmosfera di ciò che stava accadendo. Sulle scalette prima dei tornelli trovai un uomo steso per terra disperato e con la fidanzata (o la moglie) che cercava di rincuorarlo, poi, lasciato l'impianto, mi trovai davanti a un baretto dove la gente guardava la partita in TV sperando in un miracolo. Presi il ponte verso la fermata del tram e così mi trovai davanti alla sensazione che mi rimarrà per sempre di quella giornata: la crudeltà di un sole splendente che rifletteva sulle calme ondine di un Tevere piacione, tutto sommato un'ottima condizione per bevute in centro, cori di gruppo e bagni nelle fontane quando poche ore prima il cielo era quasi coperto.

Il derby di Coppa Italia è stato il quarto derby che la Roma di James Pallotta ha perso in due anni; prima dell'insediamento del gruppo di Boston che creò la D.l.l., l'equivalente americano della S.p.a., per prendere la società, la Roma veniva da un periodo economicamente nero, privo di futuro se non la voragine del fallimento, sessioni di mercato statiche dove mano a mano doveva vendere un pezzo pregiato della squadra, possibilmente il meno doloroso e più facile da digerire per i tifosi, e creare utili per ripianare i buchi clamorosi della controllante Italpetroli, ma che, un po' per inerzia, un po' per Calciopoli, la portava a contendersi il titolo con l'Inter milionaria di Moratti, una sorta di Davide contro Golia del calcio, arrivare ai Quarti Di Finale di Champions League per ben due volte e vincere ben cinque derby consecutivi in due anni, quelli che la Lazio ci sta dando indietro.

Dettagli che economicamente, soldi dell'Europa che conta a parte, contano fino a un certo punto, ma che per i tifosi sono l'unica ragione di essere. Thomas DiBenedetto, James Pallotta, Franco Baldini Direttore Generale e Walter Sabatini Direttore Sportivo, più Claudio Fenucci e Mauro Baldissoni irruppero nello sfacelo della società che Rosella Sensi lasciò, con tanto di debiti e giocatori con ingaggi pesantissimi come ultimi regali prima di andarsene (Marco Borriello), con l'idea utopistica e coraggiosa di cambiare l'ambiente, cambiare completamente la squadra tranne Totti e De Rossi che erano e sono intoccabili, cambiare i tifosi a furia di comportamenti educati e quasi da aplomb inglese, una gestione tecnica fatta di investimenti su giovani e allenatori in grado di dare un'impronta di gioco decisamente brillante.

Un'idea a cui non si può non voler bene, soprattutto se si è tifosi della Roma che vorrebbero vedere la propria squadra avere un'organizzazione societaria degna delle grandi d'Europa, quindi stadio di proprietà da fare al più presto, con buona pace del traffico, della mobilità e degli scavi archeologici che minano la maggior parte delle possibilità di costruire qualcosa, un sito Internet ben lontano dalla vergogna 1.0 che per lustri ha rappresentato la Roma sulla rete, un marchio da riqualificare cercando di espanderlo nei mercati americani e asiatici (che sono "i mercati" per eccellenza), fare in modo di conciliare il nome della squadra a quello della città in modo che ogni turista appena sceso dal volo senta il subito il bisogno di acquistare una maglia originale agli store. Per non parlare di partnership e materiali tecnici da riconsiderare... cose di cui gli americani sono maestri.

Ma per ora il risultato è stato un mediocre via vai di fallimenti sportivi, tra un tecnico fuggito e un rivoluzionario caro alla gente dimesso, un tattico promosso al rango di allenatore realista, lucido e un po' minestraro, e che comunque al di là delle antipatie del popolo ha in parte salvato una stagione con vittorie contro Juventus e Inter in semifinale di Coppa Italia, e infine una nuova scommessa, quella di un tecnico francese pupillo di Sabatini che con l'addio di Baldini al Tottenham ha preso completamente il timone in mano.

E finisce per vendere non solo un attaccante con buoni colpi ma capoccia frantumata come Osvaldo, ma anche Marquinhos e Lamela che sono le sue due creature migliori. Facile pensare male, ovvero che gli americani dopo 70 milioni spesi in due anni abbiano, per una volta, soprattutto senza l'ausilio dei soldi europei, bisogno di concludere il bilancio in attivo, oppure che Unicredit, la banca che ancora detiene una cospicua percentuale della società, abbia chiuso i rubinetti. Fatto sta che il PSG dello sceicco più spendaccione d'Europa o il Tottenham dello stesso Baldini, che nel frattempo vende Gareth Bale ad una cifra record al Real Madrid, alla faccia della crisi economica e della disoccupazione dei giovani in Spagna, bussano alle porte della Roma con tanti soldi per prendere i ragazzi al di sotto dei 20 anni che avrebbero dovuto rappresentare il futuro della squadra.

I tifosi sono inferociti, colpiti in tutto ciò che gli è a cuore: la rivalità cittadina con le sue lotte di quartiere e di scritte sui muri per rivendicare una presunta territorialità, l'affetto immortale verso i giocatori da sublimare nel positivo, il cambio di un logo rifatto su misura per accordi commerciali ed espansioni all'estero. Poco importa se il derby Roma - Lazio è da sempre una guerra tra poracci. Poco importa se Marquinhos e Lamela saranno pur sempre sostituiti da due giocatori se non più forti almeno diversi e magari più adatti alle esigenze del tecnico Rudi Garcia, ovvero quello che era mancato nei due anni precedenti in cui gli allenatori sacrificavano i naturali ruoli sull'altare del proprio credo tattico. Poco importa se più tifosi la Roma riuscirà a conquistare in Cina o in Indonesia, più i broadcast locali investiranno i propri palinsesti sulle partite della squadra giallorossa traducendo il tutto in soldi per le casse societarie.

James Pallotta e i suoi soci si sono insediati con l'idea di andare avanti per la propria strada, qualsiasi cosa sarebbe successa: non si fanno vedere, non rilasciano interviste che vadano al di là di un sorriso stampato in quella faccia da The Sopranos di Italo Zanzi, cambiano il logo fregandosene degli ultras e di quelli che in nome di una tradizione che cita addirittura i padri fondatori, roba da Romolo e Remo traslati nel 1927, affiggono manifesti contro quello che chiamano "il nuovo stemma".

Perché al contrario degli americani o dei nordici, i latini, e in particolar modo i romani, non si fidano mai del positivismo mercantile. I romani sono sanguigni, viscerali, provinciali: vengono dai rioni nascosti all'ombra dei palazzi istituzionali del centro per rivendicare tutto il loro bisogno di un attaccamento alla terra. I romani, certi romani, quelli che non hanno voglia di confrontarsi col mercato, quelli che il capitalismo non lo amano e si rifiutano anche di capirlo, hanno bisogno di rivedersi nella schiettezza un po' grossolana di Totti o nella vena incazzata di De Rossi. Vivono di tradizione, di colore, di rapporti con l'esterno quasi da De Bello Gallico. Fanno della retorica, della demagogia, della staticità dei valori, e dei giocatori in rosa, un valore quasi etico. Non amano i cambiamenti repentini, hanno bisogno di certezze, davanti a un mercato di occasioni hanno sempre più paura di perdere che di guadagnare in una forma nuova.

Un ambiente del genere è ideale per l'editoria: un target di cui si conoscono le virtù e le debolezze, estremamente fragile e dove è possibile inserirsi con un po' di cinismo. In questo modo nascono i radiopredicatori del calcio, quelli che partendo dalla strada, talvolta anche dal terrorismo degli Anni Di Piombo, lavorano dal basso per entrare dentro i cancelli di Trigoria. Gente che ha fatto successo sfruttando un'idea del ruolo sportivo della Roma quasi complementare alla politica, una Roma anticonformista e antagonista del nord ladro, ipocrita e corrotto: quello degli Agnelli e della Triade juventina, del medico Agricola, del doping e di tutto ciò che seguì il goal di Turone dell'81.

Questa gente, che sotto sotto sperava ad un fallimento della nuova Roma, rappresenta l'esatto contrario di ciò che sono James Pallotta, Walter Sabatini e ancor prima Franco Baldini, ovvero personaggi che vogliono lavorare dall'alto, che hanno fin da subito ristabilito i sei gradi di separazione tra se stessi e gli addetti alla comunicazione.

Gente che vuole cambiare i romani e Roma, una delle capitali più provinciali e decadenti d'Europa. Probabilmente non ci riusciranno e molleranno tra imprecazioni e facepalm stressati come quello di Sabatini al goal di De Rossi a Livorno. Ma non ci sarà mai più una società per cui tiferò incondizionatamente come questa, anche se dovessero vendere il giocatore punta di diamante della squadra. Perché il futuro è la società: la squadra e le vittorie sono solo una conseguenza.

La conseguenza di uno stile.


VP